Il ciclo inesausto. Tra apparire e vedere La saggezza immaginale di Alessandro Bulgarini Giacomo Maria Prati “la soluzione del nostro più intimo mistero si può trovare nelle linee appena visibili incise nel nostro essere” [ Gustav Meyrink, Il Golem ] La pittura di Alessandro Bulgarini sorprende quasi sempre proprio per la disinvolta libertà del proprio processo di configurazione tale da risultare refrattaria a facili categorizzazioni e riduzionalità di maniera. Certamente come ogni autentica arte possiede una capacità mnemo-attrattiva per cui è facile richiamare alla mente contemplandola, ed è pittura che chiede e genera con-templazione, non semplice osservazione, il fenomeno storico della surrealtà nella sua giustapposizione di elementi immaginali inattesi e razionalmente spiazzanti. Come similmente richiama il simbolismo che connota ogni fine-secolo per la ricchezza traboccante di riferimenti e allusioni rappresentative. Ma non si è detto ancora nulla perché il daimon di Alessandro tanto emerge in intensità e intensione nelle sue opere quali “visioni partecipabili” quanto si dà quale sfuggente e sfingeo a livello sia esperienziale che ermeneutico. Non è sempre l’arte nella storia figlia dell’arte quanto travalicante il “senso comune” e diacronico dell’arte stessa? Massimamente accade per le sue opere che appaiono fulgidamente border line tra il vedere e l’apparire, fra il condensarsi di un processo ideativo in corso e la stessa forza sinestetica e relazionale di tale processo il quale nel suo apparire intesse già la grammatica del proprio vedere. Non a caso l’artista stesso inventò saggiamente alcuni anni fa la ripresa di un antico termine, “icastico” per sperimentare con più auto-evidenza la partecipabilità della propria stessa opera. Caso raro ma illuminante di auto-ermeneutica che conferma in chiarezza come qui il rapporto arte-artista sia di creazione e non di produzione in quanto si mostra linguisticamente alieno al suo stesso autore nel suo staccarsi quale visione performante, come ci conferma l’urgenza di rinnovare il linguaggio quale istanza vitale sia per chi crea l’arte che per chi è chiamato a riviverla nella ricezione. Il daimon di Alessandro danza e incede con autorevole quanto viscerale sicurezza nei fluidi interstizi fra il blepein e l’oraein cioè opera dandosi la propria materia in tensione fra le due principali polarità del vedere greco, di solito oppositive e qui dialettiche tra “l’osservare l’oggetto” e il “guardare in visione” quale linguaggio libero e originario. Alessandro riesce a trattenere e vivificare la bellezza di entrambe le dimensioni: l’istintività dell’esserci presenziale dell’immagine quale “apparire” e il travalicare immanente del “vedere” quale partecipazione ontica sussistente in ciclo prima e dopo l’opera. Tutto questo con una pittura tanto colta quanto ricca anche di una componente naif, cioè della freschezza fanciullesca del sogno e della carnalità leggera dell’aurora. Lo vediamo senza dubbio anche dal confronto da alcune sue opere, come se solo dall’accettazione di questa lingua sia possibile il logos che si sofferma in essa. Se avviciniamo Psyche a Homo integralis ecco comparire un arco ideale delle vaste possibilità creative dell’autore: dall’abbozzare disegnativo tra estetica e ideatività nell’incrocio di una noesi proiettiva alla configurazione di una nuova quanto antica emblematica sapienziale che ha il coraggio di affrontare la Tradizione rivivendola in massima libertà e coraggio nel pensiero associativo-simbolico dove l’occhio diventa stargate con il fiore e il cuore e l’esempio ancestrale del Mithra della Galleria Estense di Modena appare freschissimo, appena sorto dalla pietra dalla mente e dal serpente del pensare intuitivo in un nuovo ri-velare, cioè presentare sempre nuovi veli espressivi e proiettivi. Gli stessi concetti di icona e di simbolo appaiono spiazzati e obsoleti in questa pittura-vortice così chiaramente sorgiva quanto lucida e possiamo solo richiamare quale confronto pertinente e all’altezza i “movimenti archetipali” quali strutture profonde dell’”immaginario quale processo” su cui ha scritto pagine memorabili Gilbert Durand. La forza ancestrale e aurorale dell’archetipo libero però dalla rigidità della sua mentalizzazione ermeneutica ma recuperato in integralità di vita nel suo farsi mercuriale, nella sua dinamica fisica e fisicizzante. Simile potenza immaginale troviamo in Sophia dove la lingua dell’Egitto quale mistero si compenetra con un cuore fiammante dalla mistica cristiana e compare anche un serpente-mondo tra gnosticismo e iconografia mariana. Ma è il volto di Donna Sapienza che illumina e irradia una vivente plausibilità dei sorprendenti incroci linguistici tra senso della scultura e dell’emblematica e una pittura quale coronamento platonico del kosmos stesso. Come emblematici in e di una nuova “araldica dello Spirito” ritornano i frequenti esseri alati, cigni o oche che siano, dove il senso greco del volo e dell’apparire, già iperboreo, ritorna nella sua freschezza imperiosa quali totem guida, amici proprio perché non rassicuranti e intimi al nostro fluire profondo proprio perché alieni e selvatici nella loro autonomia linguistica. Alessandro come pochi riesce a ridare il senso di cosa sia un “emblema”: un qualcosa di più fluido di un’allegoria e di più fisicamente condensato e implosivo rispetto al “simbolo”, qui recuperato nella sua presenzialità performativa più che nella sua funzione di rimando e travalicazione. C’è poco da andare oltre quando l’artista ti porta già mondi interi in eloquenza immediata. Opere come 3rD eye mostrano chiaramente la genialità compositiva e sapienziale di Alessandro proprio all’interno della sfida della semplicità e ci mostra pure il suo carisma anti-retorico e sostanzialmente libero da sovrastrutture e barocchismi. Un semplice volto, carnale quanto simbolicizzante, che reca il “terzo occhio” non in orizzontale sulla linea degli altri ma sorprendentemente declinato in verticale, e con il cielo quale pupilla. Occhio totalmente spalancato e non a caso in risonanza con l’affascinante e sfingeo “linguaggio del sorridere”. Un sorriso accennato ma profondo, metamorfico, eloquente segno dell’Illuminazione compiuta e vittoriosa. Bulgarini restituisce alla pittura l’antica e sempre fanciulla capacità di segni-ficare, cioè la capacità dell’immagine di tendersi dall’oggetto al “farsi segno”, cioè semeion: incontro, alleanza sapienziale, seme, sogno. Cosa aspettarsi o chiedere di più? Giacomo Maria Prati (Tortona, 1971) Funzionario amministrativo del Ministero dei Beni culturali, è stato direttore amministrativo della Pinacoteca di Brera e direttore del Museo della Certosa di Pavia. Parallelamente ad una formazione giuridica sviluppa un’attitudine e una passione per i linguaggi simbolici, i testi mistici, l’iconologia, i miti e le strutture narrative di determinati linguaggi, prediligendo il ciclo dei romanzi medioevali del Graal, il patrimonio alchemico, i miti di Sparta. Molte le sue passioni: dalla filosofia del diritto al management dei beni culturali. Nell’aprile 2013 esordisce come traduttore con una nuova traduzione del Cantico dei cantici e dell’Apocalisse, accostati ad immagini del Duomo di Milano e del Cenacolo di Leonardo. |
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